La Svizzera volta pagina

salvadanaio-svizzera-corbis-258Il tavolo con la Svizzera ripartirà: il negoziato tecnico con l’Italia per il rientro dei capitali esportati all’estero deve, infatti, chiudersi entro il 2015. A imprimere un’accelerazione è stata la decisione della Svizzera di firmare la Convenzione dell’Ocse e del Consiglio d’Europa sulla reciproca assistenza fiscale.

Non solo. Il contrasto all’evasione è stato stimolato dall’Ocse e sempre più suggerito dalle banche estere da quando il Gafi, il dipartimento del G7 che si occupa di lotta al riciclaggio, ha equiparato i reati tributari (ovunque commessi) fra quelli considerati causa di riciclaggio. In questo contesto, da un lato, assisteremo a un significativo incremento di accordi sullo scambio di informazioni e di norme sulla trasparenza ed è prevedibile che diventi sempre più difficile custodire in paradisi fiscali attività non dichiarate. In Svizzera, da tempo, la pressione è fortissima. Molti operatori, in particolare le banche di una certa dimensione e con un brand da difendere, vogliono che si arrivi all’accordo. Nel 2011 il governo Monti fu a un passo da un accordo fiscale bilaterale con la Svizzera. Poi tutto sfumò perché la Germania rinunciò, e l’Italia si fermò con essa.

Successivamente c’è stato un invito europeo a non sottoscrivere più accordi bilaterali tra singoli Stati e la Svizzera, ma di far rientrare queste procedure in un quadro continentale. La Germania ha avviato nel 2013 la propria voluntary disclosure, con copertura penale per l’autodenuncia, e ha già incassato 2-3 miliardi di imposte. Anche Belgio e Francia hanno iniziato piani di richiamo del denaro depositato all’estero. «È importante che pure in Italia si proceda con una totale depenalizzazione, altrimenti i veri capitali derivanti da evasione non emergeranno» ricorda da Lugano un banchiere che preferisce mantenere l’anonimato.

La pressione che c’è in Svizzera ovviamente si riflette sull’industria del private banking dove da tempo è avvenuta una certa metamorfosi. La Svizzera, se a livello generale viene sempre più percepita come Paese stabile, con una scarsa burocrazia e un sistema efficiente, nell’ambito del private banking ha perso smalto rispetto al ruolo svolto in passato. Al contrario hanno guadagnato posizioni altre piazze finanziarie come Hong Kong, Lussemburgo, Gran Bretagna, Singapore e Stati Uniti che attraggono molte più risorse di un tempo.

Secondo una stima di Deloitte solo tra il 2011 e il 2012 in termini di miliardi di dollari la Svizzera ne ha persi il 7% contro un aumento ad Honk Kong del 15%, di Singapore dell’8%, degli Usa del 22% e della Gran Bretagna del 5 per cento. «Negli ultimi 20 anni il numero di operatori finanziari in Svizzera si è quasi dimezzato (una riduzione del 40% dal 1992 al 2012) – ricorda Marco Silvani, direttore generale di Lemanik Sa – sono numerose le operazioni M&A che si sono succedute negli anni. Oltre 10 solo tra il 2013 e il 2014. Oggi l’esigenza primaria è uscire dalla black list e per molte banche essere qualificate come specialiste. Quindi, gestire il cliente in una logica allargata che vada oltre la mera gestione del patrimonio, ma con un approccio a 360° in cui la banca è vicina al cliente per risolvere le sue necessità (da quelle societarie a quelle successorie) di breve e lungo periodo».

Come spiega l’esperto, il ridimensionamento degli operatori, tuttavia, non ha fatto venir meno la frammentazione del mercato. In Svizzera ci sono ben 267 operatori (89% del mercato) che hanno patrimoni sotto i 10 miliardi di franchi, 20 tra i 10 e gli 80 miliardi e solo due banche (Ubs e Credit Suisse) con una dimensione molto superiore. Se il quadro della vigilanza è cambiato, proprio alcuni piccolissimi intermediari continuano ad avere libertà di manovra. Magari il vento delle riforme spirerà anche in questa direzione.

Fonte: Il Sole 24 Ore